Torino: storie di un'accoglienza al femminile

31 marzo 2017 - Sono tantissime le donne migranti che sbarcano ogni anno sulle nostre coste, da sole o con figli a carico, o addirittura incinte. Alcune, ne hanno perfino dati alla luce durante il difficilissimo viaggio verso l'Europa, verso la speranza. Altre, non sono riuscite a superare la traversata del terribile Sahara, o sono chiuse come prigioniere in Libia, o sono state risucchiate dal Mediterraneo, culla e tomba di troppe vite spezzate.
Quello che trovano in Italia coloro che riescono a raggiungerla, non è sempre un clima di accoglienza. Tuttavia, ci sono numerose realtà che sanno cosa vuol dire aprire le porte ed offrire gli strumenti per un futuro dignitoso. Ce lo racconta in questo articolo Ilaria Ippolito, coordinatrice di progetti SPRAR per una cooperativa sociale di Torino. Buona lettura!

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Questo articolo racconta esperienze di percorsi migratori di donne incontrate nella struttura di accoglienza in cui lavoro; storie che raccontano i vissuti, le relazioni, gli eventi, gli aspetti che caratterizzano l’esodo migratorio al femminile. Storie caratterizzate da privazioni, da perdite, paura, solitudine, ma anche dalla voglia di riscatto, dalla volontà di emancipazione, dalla lotta. Le protagoniste, non solo di queste, ma di tante storie che in questi anni ho ascoltato, combattono ogni giorno per ricostruirsi nonostante le difficoltà legate alla ricerca di una casa e di un lavoro, nonostante gli affetti e i figli siano distanti oppure persi, nonostante vivano un isolamento dovuto ad un contesto socio-culturale completamente differente e che spesso si mostra escludente. E lo fanno attraverso l’attivazione di risorse e il recupero di un’identità che credevano persa, trasmettendo una forza dirompente e contagiosa.

Nathalie è una rifugiata della Costa d’Avorio, da poco arrivata in Italia. Nella sua città, nel 2011, 800 persone vengono brutalmente uccise in un solo giorno per il solo fatto di appartenere ad una etnia diversa da quella dominante. Nathalie, appena diciassettenne, è l’unica sopravvissuta di tutta la sua famiglia: per le ripetute violenze sessuali e le ferite sviene e viene creduta morta. Trova la forza di chiedere aiuto e, soccorsa da colui che oggi lei o “ fidanzato, madre e padre”, vive in Mali fino al 2014, quando scoppia una nuova guerra che la costringe a fuggire verso la Libia. Qui perde le tracce del suo fidanzato e viene imprigionata, ancora violentata, ancora torturata ma questa volta perché la sua pelle è di colore troppo scuro e perché è donna. Riesce nuovamente a fuggire e arriva nel nostro Paese nel 2016. Nathalie oggi rivive negli incubi gli orrori subiti ma lotta con tutte le sue forze per riprendersi la vita che hanno provato a toglierle e lo fa anche con il sostegno del suo “fidanzato, madre e padre” che è riuscita a ritrovare qui in Italia.

Precious è nata a Benin City, nel sud della Nigeria. La incontro a pochissimi mesi dal suo arrivo in Italia, è giovanissima e, come molte delle sue connazionali arrivate in questi ultimi mesi, poco istruita e di famiglia povera. Mi racconta di essere rimasta orfana, di essere stata una bambina di strada, di essere stata promessa in sposa allo sciamano del villaggio e di aver fatto promesse a tante persone per riuscire ad arrivare in Italia. Quando parliamo del viaggio che ha dovuto affrontare diventa palese che Precious è una vittima di tratta, anche se ancora inconsapevole: riti sciamanici, debiti, stesse tappe di tantissime altre donne nigeriane che ho conosciuto, le violenze e la prostituzione in Libia. Precious però ha un problema in più: il suo sfruttatore è l’uomo che lei definisce il suo salvatore, il suo compagno di viaggio nonché padre di suo figlio. Lei lo capisce appena arrivati in Italia: lui cambia atteggiamento, è violento e la forza a prostituirsi. Lei lo capisce, ma non lo accetta finché le percosse sono così forti da farla finire in ospedale ed è a questo punto della storia che la incontro, è una ragazza distrutta, ha continue allucinazioni, non dorme, non riesce neanche a collocarsi nel tempo e nello spazio. Oggi Precious, dopo soli due anni, è riuscita a prendere la licenza media, studia per realizzare il suo sogno (“da grande farò la fashion designer”), collabora con una sartoria artigianalee prova a vivere l’adolescenza che non ha mai conosciuto. Ogni tanto la solitudine e lo sconforto prendono ancora il sopravvento, ma sono soltanto ombre su occhi che hanno ricominciato a brillare.

Alvine arriva dal Camerun, la conosco quando sta già provando a lasciarsi il passato alle spalle. Alvine, nel suo Paese, era una militante del partito di opposizione al governo: dopo 30 anni di immobilismo desiderava che le cose in Camerun cambiassero e pensava che questo fosse possibile mobilitando i giovani connazionali. Alvine viene imprigionata e la sua incarcerazione dura 2 anni durante i quali subisce umiliazioni e torture atroci che le lasciano sul corpo e nell’anima cicatrici indelebili, vive in spazi piccolissimi e sovraffollati in cui per potersi stendere era necessario fare a turno. Alvine riesce a fuggire ma nel suo Paese è ricercata e per questo chiede e ottiene asilo politico in Italia ma questo non basta per cancellare dalla sua testa e dai suoi sogni le immagini delle uccisioni a cui è stata costretta ad assistere. I suoi primi mesi in Italia sono un incubo: si sente persa, ha bisogno di psicofarmaci e di cure mediche costanti, ha nostalgia della sua vita in Camerun. Oggi Alvine, dopo pochissimi anni dal suo arrivo, è una delle donne più forti che io abbia incontrato: parla perfettamente l’italiano, lavora in un ristorante, ha preso la patente e tra poco sarà pronta per uscire dal progetto di accoglienza e riprendere completamente la sua autonomia.

(di Ilaria Ippolito)

 

Foto | @IRIN