Tanzania: a 15 anni dalla riforma agraria, cosa è cambiato per le comunità rurali?
28 settembre 2016 - Il 2001, in Tanzania, è stato un anno fondamentale per l’agricoltura e l’allevamento. In un paese in cui rappresenta il 50% del PIL, un settore come quello dell’agricoltura (che impegna circa l'80% della popolazione)[1] è rappresentato e gestito da un Ministero considerato ancora troppo debole e con pochissime risorse finanziarie (tra il 2014 e il 2015 si è quasi arrivati a non allocare neanche un soldo). Anche l’allevamento è di fondamentale importanza: questo sub-settore contribuisce il 5% del PIL o il 30% del PIL dell'agricoltura. La Tanzania ha la terza più grande popolazione di bovini dell'Africa, vale a dire 15.6 milioni di capi[2].
Nel 1999 sono state promulgate due importanti leggi per la gestione della terra: il Land Act ed il Village Land Act, entrati in vigore nel 2001. Al contrario del primo, emendato più di 8 volte, il Village Land Act ha resistito per questi 15 anni. Tuttavia, i risultati ottenuti non sono esattamente quelli sperati.
Da un punto di vista operativo, questa legge regola di fatto la gestione e l’amministrazione delle terre comunitarie, che rappresentano il 70% delle terre tanzaniane. Tenendo conto che il 75% della popolazione vive in queste terre, e che di questi, l’85% pratica agricoltura familiare di piccola scala, è chiaro che il Village Land Act rappresenta un atto di fondamentale importanza, e che proprio per questo fa sicuramente tirare su le antenne a molti investitori, soprattutto esteri. “Tra le altre cose” si legge nell’articolo al riguardo pubblicato su Rural21, “il Village Land Act provvede a mantenere uguali diritti di accesso, uso e controllo della terra. E’ considerata tra le più rivoluzionarie legislazioni nel riconoscimento e protezione dei diritti delle donne e dei gruppi vulnerabili in Africa Sub-Sahariana e sanziona tutti gli usi tradizionali contrari a questi diritti. […] Il Village Land Act stabilisce anche una compensazione dovuta ai proprietari delle terre, delle procedure per il trasferimento e dà il potere al Consiglio del Villaggio di garantire un certificato di diritti consuetudinari di occupazione per gli abitanti del villaggio”.
Ma l’implementazione di questa legge fatica a prendere forma. Dal 2001, sono pochissimi (circa il 12%) i villaggi che hanno messo in atto una pianificazione dell’uso della terra, soprattutto a causa di una scarsissima allocazione delle risorse, di conflitti per l’utilizzo dei territori, di personale poco qualificato e delle pratiche di suddivisione della terra. I certificati dei diritti consuetudinari di occupazione (CCROs) sono stati assegnati solo a 258mila persone (rispetto ad una popolazione di oltre 45 milioni), e di questi certificati, solo una piccola parte viene riconosciuta dalle banche come garanzia. Nella maggior parte dei casi, quindi, la popolazione o non ha alcun certificato, o quello che ha non gli permette di avere accesso a fondi. I conflitti tra contadini e pastori, come anche (e soprattutto) quelli tra le comunità e gli investitori, sono aumentati esponenzialmente, e le istituzioni per la gestione delle contese stabilite dalla legge non sono in grado di tenervi testa. Recentemente, si sono verificati molti casi di sfratti da parte di potenti gruppi di investitori a danno di pastori e popoli indigeni: la protezione dei gruppi vulnerabili e delle donne, tanto agognata dal Village Land Act, è totalmente insufficiente.
Ad oggi, dopo 15 anni dalla sua entrata in vigore, la legge che regola la terra delle comunità in Tanzania è ancora, se così si può dire, in una “fase pilota”. Pochi sono i progetti concretamente realizzati, spesso con il sostegno di organizzazioni non governative o internazionali. Un esempio interessante è sicuramente quello dell’Ujamaa Community Resource Team (UCRT), che ha assistito la popolazione Hadzabe (prevalentemente pastori e cacciatori) a richiedere il loro primo atto di proprietà collettivo nel nord della Tanzania, e che con successo ha ottenuto un CCRO per oltre 20mila ettari di terra. La conseguenza di questa azione è stato un effettivo declino dei conflitti tra contadini e pastori.
Tuttavia, al fianco di queste best practices, numerose sono le minacce alla sicurezza delle terre comunitarie. Le politiche tanzaniane mirano ad un’agricoltura rivolta principalmente al commercio, ed implementata dalla Southern Agricultural Growth Corridor of Tanzania (SAGCOT), un partenariato pubblico-privato portato avanti dal paese nell’ambito della New Alliance for Food Security and Nutrition per dare le terre in mano a grandi aziende corporative dedite all’agro-industria. La SAGCOT copre oltre 300mila chilometri quadrati di terreno, ponendo un grosso blocco al Village Land Act e con conseguenze ormai tristemente note e devastanti: un’agricoltura basata su fertilizzanti e prodotti chimici al fine di aumentare le produzioni a dismisura al fine di esportarle, lasciandosi alle spalle terreni sterili, ma soprattutto sfollamenti, allontanamenti, conflitti a discapito di chi quelle terre le abita da millenni e le utilizza e rispetta con metodi ecologici per l’agricoltura e la pastorizia di piccola scala.
“Ciò di cui c’è bisogno” conclude l’articolo di Rural21, “è di aumentare la consapevolezza delle comunità sui loro diritti, rafforzare le istituzioni stabilite dal Village Land Act, ed implementare olisticamente la legge in tutto il paese.”