Referendum trivelle: perché andare a votare

4 aprile 2016 - E’ ora di uscire dal paradigma fossile, non abbiamo più molto tempo. Specie se vogliamo mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C, come ribadito a Parigi, nei concitati giorni della COP 21 a novembre 2015. Per ottenere questo risultato, “un terzo delle riserve di petrolio e la metà di quelle di gas non dovrebbero essere estratte” ha dichiarato Aspo Italia sulla base di ricerche pubblicate su Nature all’inizio del 2015. Eppure, a livello globale pare ancora che le fonti fossili abbiano un’attrattiva enorme, non giustificata neppure dall’andamento dei prezzi del petrolio, oggi in calo per, secondo alcuni, eccesso di offerta e, secondo altri, per una combinazione di fattori quali raggiungimento del picco di produzione, convenienza delle fonti rinnovabili e lotta ai cambiamenti climatici.

Sarebbe forse il caso, quindi di dare una scossa a quanti ritengono si debba continuare a investire massicciamente su questa forma energetica estremamente dannosa per l’ambiente e l’essere umano. Il voto al referendum del 17 aprile prossimo potrebbe costituire un’occasione unica in questo senso.

Del resto, dopo la doppia inchiesta che riguarda la Basilicata, secondo alcuni lo (sfortunato) Texas d’Italia, sul progetto Tempa Rossa della Total e il probabile disastro ambientale per smaltimento illecito di rifiuti da parte dell’impianto Eni di Viaggiano (in una terra nota per le sue acque e le sue produzioni biologiche, in piena area protetta), la questione è all’ordine del giorno. Ciononostante si rischia l’astensione: peggiore di qualunque sconfitta.

Il referendum popolare sulle trivelle si terrà domenica 17 aprile dalle 7 alle 23. I cittadini sono chiamati a votare sull'attività di ricerca e di estrazione di idrocarburi liquidi e gassosi entro 12 miglia marine (circa 22,2 km) dalla costa, decidendo se gli impianti già esistenti potranno procedere all’estrazione di metano e petrolio sino all'esaurimento della fonte, anche oltre la scadenza naturale delle concessioni, oppure no.

Pochi anni fa il disastro della Deepwater Horizon, nel Golfo del Messico, fece una grande paura. I milioni di barili di petrolio sversati nel mare sono ancora là. E’ stato il disastro ambientale più grave della storia americana. Uno spettro da cui è difficile volgere lo sguardo tanto più che il Mediterraneo è un piccolo mare chiuso. In particolare, il comparto della pesca rende circa 374 milioni di euro l’anno. Per non parlare del turismo balneare. Fonti di reddito su cui le piattaforme e i loro rischi potrebbero avere ricadute enormi.

Greenpeace ha diramato un documento, in questi giorni, il cui sostiene che “il 73% delle piattaforme entro le 12 miglia dalle coste sono già da rottamare. Sono non operative, non eroganti o erogano così poco da non versare neppure un centesimo di royalties nelle casse pubbliche”. Inoltre, secondo Aspo “La realtà dietro alle affermazioni pubblicitarie fatte da politici e compagnie petrolifere mostra che i tanto auspicati aumenti produttivi possibili potrebbero essere mantenuti per un periodo non superiore agli 8 anni, e anzi quasi certamente inferiore ai 5”. 

Del resto, un’avvisaglia in questo senso l’ha fornita recentemente la stessa ENI, che – si legge nell’Altraeconomia - nell'ultimo "Piano strategico 2016-2018", ha annunciato dismissioni per 7 miliardi di euro entro il 2019, anche attraverso la cessione di quote di maxi giacimenti scoperti di recente. Il paradigma fossile è contraddetto dalla realtà”.

Occorre andare a votare. Magari per il sì.

Foto | Greenstyle