Per una legge che riconosca l’agricoltura contadina

3 maggio 2017 - Questo articolo è stato scritto da Sergio Cabras per Tempi Moderni. La versione originale è disponibile qui.

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La realtà del mondo agricolo è nei fatti molto variegata, eppure in Italia – ma in tutta Europa, anche a causa dei Regolamenti dell’UE – le leggi e le politiche sull’agricoltura non sono concepite su una pluralità di modelli, bensì si uniformano (ed uniformano il mondo agricolo) sul sistema agroindustriale, che è orientato unilateralmente al profitto, basato su forti apporti di capitale, sulla standardizzazione delle tecniche di produzione (e dei prodotti), sulle economie di scala, sullo sfruttamento degli ecosistemi (che spesso ne restano stravolti nei loro equilibri e fortemente inquinati) e dei lavoratori (particolarmente i migranti che a costo minimo forniscono il bracciantaggio a molte delle aziende che lavorano per la grande distribuzione).

Il frutto di questo sistema è un cibo di sempre più scarsa qualità (spesso perfino dannoso per la salute), che però riesce a reggere la concorrenza sui mercati grazie a prezzi bassissimi e ad un decisivo sostegno in contributi pubblici, i quali però – per come è attualmente concepita la PAC – non tengono nel dovuto conto né la capacità delle aziende di creare lavoro né le conseguenze delle forme di produzione sul piano ambientale.

Sotto il primo profilo va rilevato l’effetto del principio del disaccoppiamento secondo cui dal 2003 viene assegnato il sostegno diretto alle aziende che costituisce il primo pilastro della PAC. Assegnandolo prevalentemente in base agli ettari ne hanno beneficiato soprattutto le aziende più estese. Ciò è stato ed è tuttora di stimolo all’evidente processo in corso di accentramento della proprietà fondiaria (che diventa una rendita). Inoltre questo criterio comporta che ad ottenere la grande maggioranza dei contributi sono le aziende i cui sistemi produttivi, date le dimensioni (anche della produzione), sono più standardizzabili e quindi quelle più vocate ad una decisa meccanizzazione, cioè le meglio attrezzate per ridurre la manodopera (mentre, dato l’alto numero di disoccupati in Europa, avrebbe più senso una gestione del sostegno diretto tendente a favorire modelli agricoli labour intensive).

Sotto il secondo profilo invece andrebbero considerate nel bilancio complessivo voci quali l’erosione dello strato fertile dei suoli (dovuta alla perdita di struttura e di salute microbiologica conseguente all’uso della chimica ed alle eccessive lavorazioni del terreno), l’inquinamento delle falde acquifere, il degrado degli equilibri idrogeologici, la morìa delle api a causa dei neonecotinoidi, la perdita di agrobiodiversità; in una parola, il generale sovvertimento ed impoverimento degli ecosistemi unito all’abbandono delle campagne da parte delle comunità che le abitavano e con ciò alla fine di intere forme di vita e di cultura. Se fossero tenuti in conto questi ed altri analoghi effetti collaterali del modello agricolo dominante, l’attuale gestione dei fondi UE destinati alle politiche agricole (circa la metà del totale a disposizione dell’Unione) apparirebbe alquanto antieconomica.

All’interno di una visione delle cose orientata sic et simpliciter alla crescita economica/del PIL quello agroindustriale sembra essere l’unico tipo di agricoltura credibile ed interessante e di conseguenza quello sul cui modello le relative leggi e le politiche vengono concepite a livello europeo e nazionale. Le altre forme di agricoltura, come quelle contadine, delle quali le comunità rurali hanno vissuto per millenni e che – con i dovuti aggiornamenti culturali, tecnici e tecnologici – possono dare e danno da vivere ancora oggi, vengono trattate come sorpassate, residuali, come attività hobbystiche ed, in prospettiva, destinate presto ad estinguersi.

La conseguenza pratica è che, mentre per una piccola azienda diventa vitale trasformare il prodotto per trarne quel valore aggiunto che gli permetta di sopravvivere – non potendo competere in termini di prezzo con la grande produzione quanto al prodotto primario – la legge obbliga tutti, piccoli e grandi, a dotarsi pressoché delle stesse attrezzature e dello stesso tipo di locali (di produzione, trasformazione, stoccaggio, stagionatura, degli stessi mezzi di trasporto merci ecc…) previsti per le aziende agroalimentari industriali. Queste ultime – immensamente più grandi di quelle contadine – utilizzano ingredienti che sono già a loro volta il risultato di processi industriali e provenienti spesso da fonti diverse e lontane, eseguono lavorazioni standardizzate (e standardizzabili) su enormi quantitativi di prodotto che arrivano poi, attraverso una lunga e complessa serie di passaggi di intermediazione, a consumatori finali che possono trovarsi in ogni parte del mondo. Per questo livello di dimensioni produttive e commerciali l’estrema complessità e severità delle normative igienico-sanitarie vigenti nel nostro Paese (dove peraltro i Regolamenti UE vengono recepiti in modo se possibile particolarmente restrittivo) può considerarsi effettivamente adeguata. Al contrario, per le aziende contadine – che possiamo, in una prima approssimazione, definire come quelle di estensione e volumi di produzione e di reddito limitati, che vendono solo prodotti propri, solo direttamente al consumatore finale e solo in un ambito locale ben circoscritto e limitato (come potrebbe ad esempio essere una Provincia) – ci sono buone ragioni per sostenere che non ci sia bisogno di obbligare alle medesime regole, in quanto in questo caso la potenzialità di rischio è ben diversa ed al contempo i princìpi di tracciabilità e rintracciabilità sono garantiti al massimo grado.

L’obbligo di attenersi alle stesse regole previste per l’agroindustria mette di fatto fuorilegge i contadini che, dato il modesto volume di vendite, non potrebbero mai rientrare dell’investimento necessario per dotarsi delle strutture richieste (anche qualora trovassero la banca che gli concedesse un prestito, il che oggi in Italia è a dir poco improbabile).

Questo stato di fatto, pur dandosi in prima battuta sul piano legale, ha importanti effetti pratici, avendo già portato, e continuando a portare, molti piccoli produttori agricoli a chiudere la propria attività e molte famiglie ad abbandonare territori, soprattutto collinari o di montagna, dove erano rimaste, tra i pochissimi abitanti, quelle che li mantenevano vivi. L’abbandono delle zone rurali da parte dei contadini in Italia (come certamente altrove) significa, tra l’altro, l’abbandono di tutta quella serie di lavori di manutenzione del fondo, spesso non direttamente legati alla produzione, che sono però necessari in questo tipo di agricoltura e che contribuiscono in maniera significativa a salvaguardare gli equilibri idrogeologici, la bellezza del paesaggio, la biodiversità e costituiscono ragione di una maggiore intensità di lavoro (ma anche di redditività) per ettaro. Considerato il valore del paesaggio dal punto di vista del turismo ed anche che l’Italia spende 3 miliardi di euro ogni anno (senza calcolare gli eventi catastrofici straordinari) per porre rimedio a danni quali frane, smottamenti e inondazioni, già questo basterebbe a prendere provvedimenti (almeno legali se non anche finanziari) per incentivare e sostenere coloro che ancora vogliono abitare e lavorare le zone rurali cosiddette marginali.

Dell’agricoltura contadina come modello specifico di agricoltura oggi in Italia invece non è nemmeno riconosciuta l’esistenza, sebbene le aziende a gestione familiare e di piccole dimensioni (sotto i dieci ettari) siano circa l’85% del totale del milione e mezzo di aziende agricole presenti in Italia. È quantomai urgente addivenire ad una definizione puntuale delle peculiarità del modello contadino di agricoltura e ad un suo pieno riconoscimento che non tralasci quello delle sue molteplici valenze positive anche collaterali.

Nel 2009 una trentina di associazioni contadine da tutta Italia hanno dato vita alla Campagna Popolare per l’Agricoltura Contadina (), inizialmente con una petizione popolare, alla quale è seguito un documento più ampio ed articolato che venne presentato alla Sala Stampa della Camera dei Deputati nel 2013. Ne è seguita una interlocuzione con alcuni parlamentari più sensibili da cui sono scaturite quattro proposte di legge in materia depositate all’inizio di quest’anno 2016 da parte di quattro gruppi parlamentari diversi (SEL, M5S, PD, SVP) ed attualmente in discussione presso la Commissione Agricoltura della Camera.

Si tratta di testi ampiamente compatibili fra di loro, tanto che i rappresentanti della Campagna Contadina, nell’audizone a cui sono stati invitati presso la Commissione insieme ad AIAB e Slow Food (entrambi solidali con le istanze della Campagna), hanno proposto un’ipotesi di sintesi delle quattro PdL. In questa si sottolinea l’importanza di partire da una definizione di cosa è l’agricoltura contadina che – senza bisogno di istituire nuove figure professionali – guardi a cosa si fa e come lo si fa. Un tale modello di agricoltura deve essere definito in un modo che tenga conto di diversi aspetti che devono essere presenti tutti insieme a distinguere l’azienda contadina. Questi tratti distintivi riguardano la tipologia aziendale (ad esempio c’è la discriminante della conduzione diretta, dimensioni limitate nell’estensione e nel reddito, se cooperative composte da soli soci lavoratori); le tecniche di produzione (ad esempio aziende pluricolturali e multifunzionali); l’impatto ambientale (ad esempio, per gli allevamenti, animali tenuti prevalentemente al pascolo ed esclusione dell’uso di prodotti agrochimici di sintesi sui terreni e le coltivazioni); il prodotto ( in parte destinato anche all’autoconsumo familiare, trasformazione solo artigianale e in proprio,); l’ambito territoriale e la modalità di vendita (vendita diretta dei soli prodotti aziendali senza principio di prevalenza ed in ambito locale). Le aziende contadine sarebbero registrate in un apposito albo ed, a fronte di una serie di limitazioni, godrebbero di norme semplificate differenti da quelle valide per le altre aziende agricole, a partire dalle regole igienico-sanitarie, ma riguardanti anche diversi altri aspetti, quali, tra l’altro, il ripristino della facoltà, da parte della famiglia contadina, di apportare lavori in economia diretta agli edifici aziendali (anche abitativi); la possibilità dello scambio amicale di lavoro tra contadini; il riconoscimento dei sistemi sementieri informali, lo scambio/vendita di sementi autoprodotte e diritti collettivi sui semi che non obblighino a dipendere dalle varietà sotto brevetto; disposizioni per l’assegnazione in affitto/concessione/comodato (e non vendita) di terreni pubblici abbandonati/incolti; riduzione degli oneri in materia di fiscalità e previdenza per i contadini; facilitazioni di accesso ai mercati locali per i produttori e riduzioni fiscali per i commercianti di prodotti di filiera corta; semplificazioni normative in materia di ospitalità e ristorazione rurale…

Il percorso che ha portato a queste proposte di legge non è stato breve né facile, vuoi per l’effettiva complessità della materia, vuoi perché si tratta per molti aspetti di proposte in controtendenza rispetto all’indirizzo prevalente che guarda alla crescita del PIL e a poco altro, da cui deriva anche la difficoltà di un confronto proficuo con il mondo della politica su questi temi. E d’altra parte quale sarà l’esito finale dell’iter parlamentare non è affatto scontato, a cominciare dal fatto che una fine anticipata della Legislatura azzererebbe le PdL e si dovrebbe ricominciare tutto da capo.

Va detto anche, e purtroppo, che a remare contro sembrano esserci anche attori che hanno peso sia nel mondo agricolo che in quello politico: in una precedente audizione alla Commissione Agricoltura, sulle stesse proposte di legge, sono state ascoltate le grandi associazioni di categoria ed in modo particolare Coldiretti ha espresso una esplicita contrarietà alle istanze che vengono riconosciute dalle stesse proposte. Non stupisce in fondo che un’organizzazione la cui storia e la cui crescita (fino all’importante posizione di cui gode oggi) è andata di pari passo con quelle dell’industrializzazione dell’agricoltura italiana abbia un approccio secondo cui i contadini devono “modernizzarsi” e l’agricoltura propriamente contadina viene vista come residuale, come superata, come non competitiva mentre un’agricoltura moderna deve saper competere sui mercati globali.

Eppure, quanta parte ha in questa presunta competitività il sostegno pubblico? Quante di queste aziende che vengono portate a modello riuscirebbero a sopravvivere se non fosse grazie ai soldi che in varie forme prendono dai contribuenti (attraverso lo Stato e l’Europa) e di cui quasi nulla resta alle aziende piccole che sono però la stragrande maggioranza? Se è vero che spesso sui bilanci aziendali la parte che entra come sostegno all’agricoltura supera o quasi quella derivante dalla vendita del prodotto, in che senso si può parlare di “competitività”? Non si dovrebbe parlare invece di economia assistita? E perché, mentre molte aziende di altro tipo chiudono e migliaia di lavoratori perdono l’impiego, un settore in cui l’età media degli addetti è molto alta viene sostenuto in misura così ingente? Forse perché (non qualsiasi tipo di agricoltura, ma) l’agricoltura industriale fa da perno intorno al quale girano tutta una serie di altri business di gran lunga più rilevanti, nelle economie avanzate, della produzione agricola in sé: aziende petrolchimiche, industria meccanica, compagnie petrolifere, ditte sementiere e biotecnologiche, grande distribuzione organizzata, trasporti, banche, assicurazioni, consulenti, tecnici, professionisti, associazioni di categoria…. I giri di affari di tutti questi soggetti devono poter continuare a girare e per poterlo fare hanno bisogno del perno costituito dal modello industriale di agricoltura, perché con un modello diverso non potrebbero farlo nello stesso modo e nella stessa misura. E però questo modello funziona anche perché nel prezzo finale del prodotto non vengono inseriti i costi delle ricadute ambientali e sociali di una produzione del cibo che non punta sulla qualità ma sulla competizione al ribasso dei costi, che è il più grave tra i fattori climalteranti a livello planetario e che spesso si avvantaggia di manodopera sottopagata.

Anche nel modello contadino di agricoltura non è possibile inserire nel prezzo finale dei prodotti tutte le ricadute collaterali, virtuose in questo caso, di un’agricoltura sostenibile, che ripopola e salvaguarda i territori, crea autooccupazione e produce cibo (con le parole di Carlo Petrini) “buono, pulito e giusto”. Ma purtroppo per molti contadini oggi, con le leggi attuali, non solo è impossibile inserire queste voci nel prezzo a cui vendono i loro prodotti, ma è proprio impossibile venderli.

Viene da domandarsi se si ritenga preferibile che i contadini rimangano stretti nell’alternativa tra adeguarsi ad un modello al quale non possono accedere, non avendone i mezzi, oppure chiudere. E se invece non si debba dare maggiore ascolto a chi rivendica il valore di un modello diverso di agricoltura, le sue peculiarità, e di adeguarsi a quello agroindustriale non solo non ne ha i mezzi, ma ha invece molte buone ragioni per non volerne sapere.

L’agricoltura contadina ha dato e dà da mangiare e da vivere da tempo immemorabile in tutto il mondo e produce tuttora la maggior parte del cibo che viene consumato sul pianeta: non è credibile che sia diventata nel giro di pochi anni un relitto del passato e perfino un sistema produttivo necessariamente pericoloso sul piano igienico. Il punto è entrare nel merito delle questioni per conoscere e riconoscere la specificità di questo modello agricolo e saper definire regole ad hoc, semplici ed adeguate, che gli garantiscano uno spazio certo di agibilità legale.

È una questione centrale per quella che vien chiamata la “sovranità alimentare”, che è un altro modo per dire “pluralismo” o “democrazia” quando parliamo di agricoltura e del cibo che mangiamo.

 

Foto | @Umberto Feola per Tempi Moderni