Per un sistema alimentare migliore: rafforzare le comunità e regolamentare le multinazionali

3 agosto 2015 - L'articolo di Nora McKeon è stato scritto in occasione del convegno "Le tre agricolture: contadina, industriale, ecologica. Nutrire il pianeta  e salvare la Terra", realizzato nei giorni 20-21-22 aprile 2015, presso il Museo dell’ Industria e del Lavoro (MUSIL)  di Rodengo Saiano, a Brescia. Le riflessioni presentate in questo articolo sono sviluppate in modo più dettagliato in McKeon, N., Food Security Governance: empowering communities, regulating corporations (Routledge 2015). 

 

(Nora McKeon) L'agricoltura è stata a lungo relegata ad un ruolo piuttosto misero negli scenari dello sviluppo, mentre i contadini, suoi protagonisti, sono stati sminuiti come relitti di un’epoca passata. Questa rappresentazione modernista è stata però scossa dalla crisi dei prezzi alimentari del 2007-2008: essa ha mostrato chiaramente che il cibo e l'agricoltura sono davvero al centro degli interessi geopolitici ed economici, sia dei paesi ricchi che di quelli poveri. Non a caso, i negoziati di sviluppo del Doha Round della OMC sono stati spesso in difficoltà a causa del comparto agricolo. L'agricoltura fornisce mezzi di sostentamento per la maggior parte della popolazione mondiale. Il cibo è il più basico dei bisogni e dei diritti umani, la cui violazione può portare la gente a protestare nelle strade, e perfino a rovesciare dei regimi. Ma nonostante questo, in qualche modo ci ritroviamo a fare i conti con un sistema alimentare globale che oltre alla fame, produce cambiamenti climatici, spreco di cibo, diete non salutari, prodotti pericolosi per la salute. Gli effetti di questa situazione si sentono ovunque: più persone, a livello globale, soffrono di sovrappeso e obesità piuttosto che di fame, e il diabete di tipo 2 uccide circa 3,8 milioni di persone ogni anno.

Come ci siamo arrivati, e cosa possiamo fare ora? Le risposte a queste domande sono legate al potere: chi lo esercita, chi ne beneficia. Chi costruisce l'agenda alimentare? Quali attori hanno effettivamente peso quando le decisioni vengono prese? EXPO 2015 sta mettendo in mostra le “migliori tecnologie” come ricetta vincente per nutrire il pianeta, ma il problema è altrove. Le responsabilità pubbliche sulla sicurezza alimentare sono state vendute ai mercati e alle multinazionali, mentre gli attori che lavorano in prima linea (ovvero i produttori di cibo di piccola scala) sono stati privati di potere. Senza protezione e supporto da parte dei governi locali e delle norme internazionali, sono stati scacciati dalle loro terre e spodestati dai loro mercati, con l'accusa di essere inefficienti e arcaici. Eppure sono loro che producono circa il 70% del cibo consumato nel mondo.

La crisi dei prezzi alimentari ha smascherato le contraddizioni strutturali del sistema alimentare mondiale, puntando un faro sulla sua propensione a favorire una ristretta cerchia di multinazionali privilegiate, e di attori finanziari, coi loro alleati politici. Il sistema alimentare mondiale è stato egemonizzato da un piccolo gruppo di multinazionali agroalimentari e della grande distribuzione, concentrate verticalmente e orizzontalmente. Negli ultimi vent'anni abbiamo assistito ad un consolidamento incredibile del loro potere, grazie alle regole del gioco messe in atto col supporto di governi compiacenti, delle politiche di aggiustamento strutturale all'OMC e dei partenariati commerciali e finanziari bilaterali che vengono negoziati attualmente. I 5 maggiori commercianti di grani controllano il 75% del commercio internazionale. Nell'industria multinazionale degli input agricoli, le tre aziende principali, da sole, rivendicano circa il 50% a livello globale del mercato dei semi brevettati, grazie alle leggi sui Diritti di Proprietà Intellettuale che premiano le multinazionali per le risorse che investono nei laboratori di ricerca, ma ignorano gli sforzi molto più sostanziali di milioni di contadini anonimi, nonché la necessità di garantire i loro diritti ad usare e scambiare I loro stessi semi. Le catene di supermercati hanno invaso il Sud del mondo, aiutate dalle politiche globali che hanno aperto le loro economie ad investimenti stranieri deregolamentati. Il numero di supermercati Walmart in Messico è aumentato da 14 nel 1994, prima del NAFTA, a 1724 nel 2012, con evidenti conseguenze per i piccoli commercianti e produttori.

La speculazione finanziaria è oggi la ciliegina sulla torta dell'espropriazione dei produttori di cibo in tutto il mondo. Cibo e terra sono stati astratti dalle loro forme fisiche e dal loro valore d’uso e trasformati in complessi prodotti per gli investimenti finanziari, al servizio di investitori e speculatori invece che di produttori e consumatori. Con l'aumento degli standard privati e il declino del ruolo regolatore dello stato, le multinazionali agroalimentari hanno un peso sempre più importante nella regolamentazione del sistema alimentare che esse stesse dominano. Spendono somme ingenti per cercare di influenzare le scelte dei consumatori e l'opinione pubblica a proprio vantaggio, mentre finanziatori filantropico-capitalisti come la Bill & Melinda Gates Foundation promuovono la realizzazione di studi pro-multinazionali, attraverso le donazioni che fanno alle università e agli istituti di ricerca. Le multinazionali dipingono le filiere alimentari globali come “moderne” e “produttive”, l'unico modo per nutrire “i 9 miliardi che siederanno a tavola nel 2050”. Il paradigma produttivista sul quale si basa questa narrativa si basa sulla scienza e sulla tecnologia occidentale, adottando le unità di misura che esaltano gli effetti degli input esterni (rendimento per pianta) invece di quelle che enfatizzano anche una gamma di benefici sociali e ambientali (rendimento totale per campo diversificato in un'ottica agro-ecologica). Inoltre, questo paradigma ignora le cause strutturali di fame e malnutrizione.

In realtà, esiste una enorme quantità di dati che dimostra che il cibo prodotto oggi è più che sufficiente a nutrire il pianeta, e lo sarà domani. Il problema è l’accesso al cibo – un accesso iniquo ed ineguale - e le soluzioni necessarie a risolvere questo problema richiedono volontà politiche e non attenzione tecnica alla produttività. Ad ogni modo l’affermazione che l’agricoltura industriale altamente tecnologica sia più produttiva dell’agricoltura familiare agro-ecologica si basa su un falso assunto, già messo in discussione da un importante simposio sull'agro-ecologia organizzato dalla FAO lo scorso settembre 2014[1].

Se i prezzi dei prodotti del sistema alimentare corporativo industriale fossero tenuti ad includere i costi delle esternalità che è loro consentito infliggere sulle comunità, essi sarebbero molto più alti di quelli praticati sui mercati locali dai produttori di piccola scala agro-ecologici.  L’approvvigionamento di cibo su scala globale si basa sulla possibilità di ignorare i costi energetici, del petrolio e delle emissioni che si emettono portando in giro il cibo per il mondo. L’instabilità di questo sistema, che provoca il 50% del totale annuali di emissioni di gas serra, è messo drammaticamente in luce dal cambiamento climatico[2]. Per quanto riguarda il suo impatto sui produttori di piccola scala, esso può essere descritto solo come devastante. A causa della logica e della dimensione e degli interessi economici che li guida le catene globali del cibo sono intimamente connesse con un modello industriale di produzione agricola basta sulle monocolture condotte su vaste estensioni di terra.  Uno degli impatti di questo modello è l’espulsione dei produttori di piccola scala per liberare la terra e far spazio alle piantagioni, un trend esacerbato dagli investimenti speculativi. Collegare i piccoli produttori alle catene del valore dominate dalle multinazionali è l’alternativa “win-win” che si intende promuovere, ma l’evidenza mostra che questo non migliora la loro situazione. Se in questo caso i contadini sono lasciati sulle loro terre, portano sulle proprie spalle i rischi climatici e le altre variabili legate all'agricoltura, subendo il controllo da parte delle grandi aziende su ciò che piantano, dove e quando piantare, e che prezzo ricevere in cambio. Con il risultato di perdere la propria autonomia che è anche il fondamento della loro resilienza (EAFF, PROPAC e ROPPA 2013).  Ciò nonostante la narrativa dominante sostiene che il futuro per i piccoli agricoltori familiari è nell'unirsi alle catene del valore industriale. Unico modo per migliorare le condizioni di vita di quel 12%, di soli uomini, che riesce ad inserirvisi[3] – per diventare “agricoltori progrediti”. Il resto sarà destinato a “migrare al di fuori del settore agricolo” come da elegante formulazione della Fondazione Syngenta[4]. Il dove, è un problema che riguarda qualcun’altro, non certo le imprese multinazionali.

Le svariate crisi del cibo, del clima, dell’energia, della finanza, tra loro strettamente interrelate hanno creato l‘opportunità politica per il cambiamento. Ci stiamo avvicinando molto al limite assoluto dal punto di vista ecologico, socio-economico e politico, di un sistema alimentare iniquo ed insostenibile, ma fortunatamente, delle alternative esistono. Negli ultime tre decenni, infatti, è sorto un ventaglio articolato e diversificato di altri percorsi per l’approvvigionamento alimentare: si tratta di iniziativi radicate nei territori e nelle culture delle diverse zone del mondo. Queste soluzioni sono praticate e rivendicate da parte di organizzazioni sempre più autorevoli di contadini, pescatori artigianali, pastori, popoli indigeni, poveri delle aree urbane, ed altri settori tra i più colpiti dall'insicurezza alimentare. Molti tra questi si riconoscono nel movimento per la sovranità alimentare, che invoca il diritto dei popoli a definire i propri sistemi agricoli ed alimentari, sani e sostenibili. La sovranità alimentare come paradigma e pratica si contrappone al “pacchetto libero mercato” basato sul modello produttivista, che spinge la “modernizzazione” in tutte le sue dimensioni. Esso si basa sui diritti, a partire dal diritto dei popoli a scegliere quale cibo produrre e consumare ed in che modo, e comprende i loro diritti di accesso e controllo delle risorse produttive. È attento all'ecologia, all'ambiente e alla biodiversità. Contrasta il cambiamento climatico e crea resilienza. È radicato nei territori, colma le distanze tra produttori e consumatori e fornisce cibo sano per tutti. Crea occupazione, stimola le economie locali e contribuisce a diminuire le diseguaglianze. Nel nord questo tipo di iniziative che ricongiungono i consumatori con le fonti di cibo sano proliferano. Spesso creano alleanze con le autorità locali, permettendo ai cittadini di riappropriarsi delle scelte alimentari. Nel sud, le reti locali del cibo difficilmente possono essere definite “alternative”, in quanto costituiscono la via principale attraverso la quale i bisogni alimentari delle popolazioni vengono soddisfatti. Nonostante il sostegno che ricevono dal settore pubblico sia minimo, le unità di produzione familiari producono il 70% delle forniture del cibo del Brasile; in Africa raggiungono l’80%.

I sostenitori del movimento per la sovranità alimentare rivendicano il valore delle loro esperienze e delle loro richieste a tutti i livelli. Hanno contribuito a creare il primo forum politico globale aperto all'effettiva partecipazione dei settori più colpiti dall'insicurezza alimentare e più attivi nello sviluppare le soluzioni: i produttori di cibo su piccola scala ed i poveri, consumatori urbani. Il comitato delle Nazioni Unite per la Sicurezza Alimentare Mondiale (CSA) basato alla FAO è stato riformato nel 2009 per diventare uno spazio di dibattiti inclusivi, di cambiamento di paradigma, di guida normativa e attribuzione di responsabilità. Dopo cinque anni di vita si rivela un primo passo – anche se timido e problematico – verso la creazione di un sistema di governance globale che possa supportare la pressione verso il cambiamento che viene dalla base. Il prodotto più significativo, fin qui, sono state le linee guida sulla governance responsabile delle regimi di proprietà della terra e delle altre risorse naturali, prima esperienza di negoziazione a livello globale in questo campo importante. Grazie in buona parte all'impegno dei movimenti sociali, questo strumento si basa sui diritti umani universali, ed afferma con forza un certo numero di questioni fondamentali per le popolazioni rurali, come ad esempio il riconoscimento dei diritti fondiari di origine consuetudinaria, e del bisogno di consultare in modo significativo le comunità. Alcuni passi in avanti sono stati fatti nel contestare, all'interno del CSA, la visione promossa dalle imprese multinazionali. È stato riconosciuto ufficialmente che i piccoli produttori – non i governi o le multinazionali – sono responsabili della maggior parte degli investimenti in agricoltura, e che questi investimenti non sono solo monetari: prendono la forma del lavoro, delle conoscenze impiegate nei loro campi e sulle loro terre giorno dopo giorno. Dal momento che sono loro a produrre il cibo per la maggior parte della popolazione mondiale, dovrebbe essere evidente che la sola strategia concepibile e vincente per promuovere la sicurezza alimentare è quella di sostenere e difendere gli sforzi dei piccoli produttori di cibo, ma questa logica continua ed essere contestata da chi promuove un sistema alimentare guidato dalle multinazionali. 

Cosa ci vorrebbe per far sì che il movimento per la sovranità alimentare serva da contro-forza per aiutare a frammentare il dominio globale del sistema alimentare dominato dalle multinazionali, in favore di un approccio alla produzione di cibo radicato e governato nei territori?

Difendere l’autonomia di una produzione di cibo contadina sostenibile, basata sul lavoro delle famiglie e dei sistemi alimentari locali, dalla logica dominante, basata sul mercato e sulla catena del valore, è fondamentale. Come lo è avere solidi sistemi di regolamentazione. I diritti delle imprese multinazionali sono difesi da leggi inattaccabili (hard law), come gli accordi sul commercio e gli investimenti, con solidi strumenti di attuazione, mentre i loro obblighi sono soggetti solo a codici di condotta molto blandi (soft law), linee guida volontarie e di auto-regolazione, nel nome della supposta responsabilità sociale d‘impresa. È necessario arginare l’attuale ondata di “partenariati pubblico-privato”, e resistere al seducente culto dei processi decisionali multi-stakeholder, secondo il quale tutti gli attori devono sedere ai tavoli della governance in modo paritario, senza distinzioni tra le loro identità, i rispettivi ruoli e le responsabilità, gli interessi che li guidano, e senza tenere conto degli squilibri di potere. In una situazione simile, la parte più potente – e cioè le multinazionali – sarà inevitabilmente in condizioni di dettare legge, facendo svanire la responsabilità dei governi.

Al contrario, abbiamo necessità di chiamare in causa i governi, perché rispondano delle loro responsabilità, e obbligarli a trasformare gli strumenti soft - come le linee guida sulla terra e le altre risorse naturali adottate dal Comitato per la Sicurezza Alimentare Mondiale (CSA) – in solide (hard) leggi nazionali e regolamenti da far rispettare per proteggere le categorie più vulnerabili. Questo può succedere solo mettendo in campo una pressione sociale sufficiente. Tra gli esempi significativi in termini positivi, quello del governo indiano che ha sfidato le regole del WTO facendo uso di approvvigionamenti pubblici e delle riserve nazionali per promuovere la sicurezza alimentare, o del Camerun che ha alzato le barriere tariffarie per proteggere la produzione locale di pollami dal dumping di pezzi di pollo congelato importati. Gli Stati sono oggi tra i principali colpevoli nel promuovere obiettivi ristretti e di corto respiro, ma restano comunque fondamentali per l’obbligo di rispondere sulla difesa dei diritti collettivi delle popolazioni.  Un migliore sistema alimentare mondiale può essere solo il frutto di una volontà politica generata dalla mobilitazione dei movimenti sociali e dei cittadini, cioè di noi tutti.

 


[1] Si veda http://www.fao.org/about/meetings/afns/en/. Si veda anche risultati di un recente studio condotto dalla Università di Berkeley  http://newscenter.berkeley.edu/2014/12/09/organic-conventional-farming-yield-gap/

 

[2] GRAIN (2011), “Food and Climate Change: the forgotten link”. Against the Grain, 28 September 2011. http://www.grain.org/article/entries/4357-food-and-climate-change-the-forgotten-link

[3] Vorley B., Cotula, L., Chan, M.K., (2012), “Tipping the Balance: Policies to shape agricultural investments and markets in favour of small-scale farmers”, IIED, Oxfam. Pg 6.

[4]  Zhou, Y. (2010). Smallholder Agriculture, Sustainability and the Syngenta Foundation. Syngenta Foundation for Sustainable Development.http://www.syngentafoundation.org/__temp/Smallholder_Agriculture__Sustainability_and_the_Syngenta_Foundation.pdf

 

 

 

Photo credit: UNIDO su Flickr