Migranti: schiavi nei campi di pomodoro in Italia. La denuncia dell'ETI
20 gennaio 2016 - Il senso di una crescente insicurezza alimentata da flussi migratori incontrollati e avallata da una parte delle autorità politiche italiane ed europee continua a giustificare l’applicazione di rigide misure che pongono i migranti in una situazione legale precaria e li rendono facili prede di sfruttamento e caporalato. Specie nel settore agricolo.
“Per stare qui, occorre un contratto di lavoro” dichiara Abdou, un ragazzo Senegalese di 26 anni, intervistato nell’ambito di uno studio condotto dall’Ethical Trading Initiative (ETI),un'alleanza con sede in Gran Bretagna che raggruppa aziende, sindacati e organizzazioni di volontariato contro lo sfruttamento dei lavoratori. “Un contratto può essere acquistato con circa 1000 euro. Ma sono in pochi ad averlo. In ogni gruppo di lavoro, infatti, c’è un caporale. E’ lui che prende i documenti per redigere la bozza del contratto di assunzione. Ma quando gliene chiedi conto, le risposte sono vaghe ed elusive e in ogni caso ti dicono che ti sarà dato tutto non appena il lavoro sarà stato svolto”.
In particolare, secondo lo studio, i migranti guadagnano in media il 40% in meno rispetto alle soglie minime legali italiane e devono corrispondere delle “tasse ai caporali per il trasporto e i beni di prima necessità (cibo, medicinali ecc.). Inoltre, si stima che circa il 60% dei lavoratori non abbia accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente, mentre il 70% sarebbe affetto da patologie direttamente collegate all’attività lavorativa.
Questo è solo l’ultimo in ordine di tempo dei rapporti sul tema del caporalato nel nostro Paese, ma potrebbe avere anche importanti ricadute economiche. L’Ethical Trading Initiative infatti, ha chiesto alle imprese britanniche di prendere misure adeguate contro questo stato di cose. Più in dettaglio, suggerisce ai gruppi di distribuzione del Regno Unito di effettuare la mappatura delle catene di approvvigionamento dei pomodori (anche trasformati), con un focus specifico sulle aree a maggior rischio di sfruttamento attraverso l’ausilio di questionari e documenti di controllo alle aziende italiane in modo da fornire dati più precisi sui salari percepiti dai dipendenti e sulle ore di lavoro. L’intento è facilitare la presa di coscienza e la responsabilizzazione delle imprese implicate anche attraverso misure restrittive.
Se venissero messe in pratica, queste misure non sarebbero certo trascurabili, se è vero che il 60% dei pomodori trasformati e commercializzati nel Regno Unito è oggi di provenienza italiana. Ma in gioco, c’è la vita di almeno 400 mila lavoratori agricoli (per l'80 per cento migranti) a rischio sfruttamento, secondo quanto riportato anche nel Secondo Rapporto Agromafie e Caporalato, redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto e diffuso da Libera circa un anno fa.
"Le imprese e le catene della distribuzione devono lavorare a tutti i livelli per garantire migliori condizioni di vita per i lavoratori nei campi". Secondo l’ETI "le aziende del Regno Unito hanno potere e influenza; possono e devono agire". E non sono le sole.
Foto | Flickr - Isabel Eyre