In Mali sulle rotte dei migranti: un’intervista a Vincenzo Giardina
Sono tanti i giovani che partono dal Mali e intraprendono "la strada della speranza", verso la Libia e poi l'Europa. La maggior parte di loro resta in Europa, alcuni non riescono neanche ad arrivare. Altri ancora, invece, dopo varie vicissitudini tornano indietro, a volte grazie agli aiuti europei per avviare un'attività imprenditoriale. Su queste rotte dei migranti ha viaggiato il giornalista Vincenzo Giardina, che abbiamo intervistato.
24 ottobre 2017 - Non è passato molto tempo dal ritorno in Italia di Vincenzo Giardina, giornalista dell’agenzia DIRE che, a giugno scorso, ha viaggiato insieme al fotografo Massimo Perruti fino in Mali, passando da Bamako, la capitale, e poi dirigendosi verso il confine con il Senegal e la Mauritania, percorrendo all’inverso le rotte intraprese dai migranti per arrivare in Libia e poi in Italia. In un interessantissimo articolo uscito su Vanity Fair (pubblicato anche sul suo blog), si racconta la storia di Mohammed, giovane maliano che per due volte ha percorso quelle rotte, per tornare infine nel suo Paese ed avviare un’attività di allevamento di mucche attraverso gli aiuti ai rimpatri volontari finanziati dal Fondo asilo migrazione e integrazione (FAMI) dell’Unione Europea. Terra Nuova, insieme ad Iscos e Re.Te ed al capofila GUS, ha seguito questo progetto di rientro in collaborazione con la Cooperazione Italiana.
Per approfondire maggiormente le questioni relative alla situazione attuale in Mali ed alle numerose partenze dal Paese verso il vecchio continente, abbiamo fatto alcune domande a Vincenzo Giardina.
Ormai per il Mali si parla di un conflitto a bassa intensità, costante. Quale situazione socio-politica avete trovato al vostro arrivo?
Il viaggio che abbiamo fatto è cominciato pochi giorni dopo l’attentato che ha preso di mira un resort in una zona alle porte di Bamako, attribuito a militanti riconducibili a gruppi o ideologie islamiste. Il proprietario è un cittadino francese e il resort era frequentato da maliani benestanti, quindi dall’élite politica e sociale di Bamako, come anche da espatriati. Ci sono stati dei morti e questo avvenimento è stato l’ultimo, in ordine di tempo, a finire sulle pagine dei quotidiani e sugli schermi delle televisioni italiane ed europee dopo episodi analoghi, come quello avvenuto nel Novembre 2016, all’Hotel Radisson, a Bamako. Durante quel viaggio ho visto che il Mali è un paese tornato ostaggio di un conflitto armato. Questa è una storia che riguarda anche altre regioni geografiche del Mali, perché gli agguati sono continuati nonostante l’accordo di pace siglato nel Giugno 2015 tra il Governo Centrale di Bamako e alcuni gruppi armati di matrice Tuareg e islamista. Sono passati 2 anni dalla firma di quell’accordo, però la situazione di conflitto non è stata superata.
Rispetto alla parte del viaggio che ci ha portato verso il confine con la Mauritania e il Senegal, quelle sono zone ritenute generalmente meno a rischio e, come abbiamo provato a raccontare con Massimo Perruti nel reportage pubblicato da Vanity Fair, sono le Regioni percorse dalle rotte attraversate dei migranti che dal Senegal poi puntano su Bamako e da qui poi verso il Burkina Faso, il Niger e la Libia.
Quali sono le principali motivazioni che spingono le persone a partire, ad intraprendere la via del Mediterraneo verso l’Europa?
Abbiamo visitato a Bamako un centro di accoglienza e di sostegno per migranti di ritorno dall’Europa o in procinto di partire per l’Europa, ARACEM. Loro ci hanno raccontato che, nonostante l’impatto che questa crisi particolarmente acuta tra il 2012 e il 2013 ha avuto e non ancora superata, nel complesso chi parte dal Mali lo fa non perché in fuga da un conflitto armato, ma a partire da situazioni di difficoltà su un piano economico. Queste dinamiche le abbiamo viste bene nella Regione di Kayes, a Ovest di Bamako, che confina con la Mauritania e il Senegal ed è attraversata da quella che viene chiamata in Mali “la strada della speranza”. Se si esclude una strada asfaltata, che collega proprio la città di Kayes con Bamako, quella Regione è una regione senza strade, o meglio di strade che non considereremmo percorribili in Europa: sembra una banalità ma condiziona in modo pesante le persone perché costruire, realizzare un pozzo, un edificio con queste difficoltà costa molto di più. Questi sono villaggi dove manca la corrente elettrica, dove mancano i servizi primari. In questi villaggi l’elemento che ci è stato raccontato ascoltando le autorità tradizionali, incontrando i prefetti e i rappresentanti anche del governo centrale di Bamako, è la speranza di poter poi dall’Europa, dall’Italia o dalla Francia, contribuire in modo importante alla piccola economia familiare inviando quel tesoro che per il Mali sono le rimesse. Abbiamo incontrato chi raccontava orgogliosamente, ragazzi giovani di 30-35 anni vestiti alla francese, scarpe e jeans, che sono tornati per un periodo in vacanza nel loro villaggio, come per esempio grazie al loro lavoro di ristoratori o camerieri fossero riusciti a permettere alla loro famiglia di costruire una casa di cemento: magari dentro non c’è l’acqua corrente, non c’è l’elettricità però comunque sono il segno di un benessere nuovo, di un aiuto possibile e importante grazie a chi è partito.
E’ molto alta, a vostro avviso, la percentuale di persone (per lo più giovani uomini) che partono?
La regione che abbiamo visitato, quella di Kayes, è ad alta densità di partenze. Lì abbiamo incontrato il prefetto del comune, che ha raccontato che è stato calcolato che i morti migranti partiti e dispersi in mare sono stati in un anno 100, e stiamo parlando di un piccolo comune. E questi numeri ce li siamo fatti confermare da chi ha perso un fratello, da chi ha perso uno, due, tre figli. Ricordo le storie e i volti!
A Bamako abbiamo riscontrato la stessa situazione. Abbiamo inoltre conosciuto Kidiatou Sy Sow, la prima governatrice di Bamako e di tutto il Paese, originaria di Kayes: lei ci ha confermato che la dinamica è questa ed ha sottolineato il fatto che l’Europa potrebbe contribuire a ridurre certi squilibri o comunque avviare percorsi di sviluppo su un piano economico e sociale che avrebbero un impatto sui flussi migratori. Ha ribadito che l’Europa dovrebbe assumersi delle responsabilità e non limitarsi ad intervenire per cercare di bloccare o ridurre i flussi, cosa che avviene sempre negli accordi tra le autorità locali e i paesi europei, puntando soprattutto sulla dimensione della repressione poliziesca.
L’altro grande tema è quello della cooperazione o comunque del sostegno allo sviluppo. Per la nostra inchiesta, ci siamo proprio concentrati più su questo aspetto, seguendo la storia di Mohammed.
Immagino che le famiglie investano tutto quello che hanno per poter mandare i loro giovani in Europa. Come viene accolto chi fa ritorno in Patria?
Il ritorno alternativo ad una vita da migrante che consenta l’invio regolare di rimesse alle famiglie di origine non sempre è vissuto bene. La regione di Kayes è una regione particolare anche da un punto di vista etnico culturale: le comunità che abitano in quelle zone sono considerate etnie, gruppi e comunità migranti per eccellenza, quasi che la partenza per queste comunità di allevatori e di pastori sia un elemento indispensabile in un percorso di crescita individuale. Si pone quindi un rapporto tra questo fatto culturale e una dimensione economica e sociale di difficoltà che in qualche misura sostiene questa idea, cioè che la partenza sia necessaria perché è uomo colui che parte e che con la partenza riesce a sostenere e aiutare la famiglia. Quindi le storie raccontate come storie di successo sono quelle di chi riesce a restare in Europa, a inviare rimesse o che magari decide di tornare dopo anni ma, con l’esperienza e il denaro messo da parte, avviare una piccola attività.
Quindi in qualche modo l’investimento per il futuro dei figli è più concentrato nel mandarli verso l’Europa piuttosto che cercare di creargli un futuro nel proprio Paese...
Penso a quello che ci ha detto il prefetto, nella regione di Kayes... Migrare è un diritto, trasferirsi è un diritto, cercare una vita migliore. Allo stesso tempo, mi ha detto, siamo contro le migrazioni irregolari, cioè quelle che non presuppongono un visto perché poi in mare noi perdiamo il nostro futuro, cioè i giovani che potrebbero contribuire ad un percorso di sviluppo per il Mali. Anche nelle esperienze di chi dalle campagne si sposta verso la città, come tante ragazze che lavorano come domestiche a Bamako, emerge una spinta forte verso le migrazioni dovuta alle difficoltà di garantire lavoro e delle possibilità alternative. In questo senso il conflitto armato è un elemento che rallenta queste possibilità.