Il Messico non è solo violenza, droga e mutismo della società civile

La “Rivista di studi e ricerche sulla criminalità organizzata” è prodotta dall’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università di Milano. Al quarto numero, appare un’iniziativa editoriale di nicchia ma molto interessante e con materiali sostanziosi, ponderati, mai superficiali. I materiali sono tutti accessibili on-line, aspetto anche questo degno di nota.

Nel numero 2/2016 di questa pubblicazione, appare un lungo articolo intitolato “Tra Narcos e Stato. Le forme della resistenza civile in Messico”.

L’autore, Thomas Aureliani, scava nella realtà di questo Paese a partire dalla constatazione che "la voracità e l’espansione dei cartelli della droga e i conseguenti scontri per dominare territori e mercati", unitamente alla militarizzazione della risposta dello Stato (in particolare durante la presidenza di Felipe Calderón tra il 2006 e il 2012, ma con un processo che viene dagli anni Novanta con l’erosione del potere centrale del regime incardinato sul Partido Revolucionario Institucional e nel 2000 la vittoria alle elezioni del concorrente Partido de Acción Nacional), "hanno innescato un’escalation di violenza senza precedenti, al punto che non sembra azzardato parlare di un’autentica guerra civile". La moltiplicazione dei conflitti (tra lo Stato e i cartelli del narcotraffico, tra gli stessi cartelli, tra le diverse agenzie e istituzioni statali, tra la popolazione civile e la criminalità organizzata, ma anche i conflitti tra popolazioni locali e investimenti economici difesi dalla polizia), la diffusione di pratiche extra-legali da parte della polizia o dell’esercito… in definitiva: il livello endemico di violenza che ha scardinato l’istituzionalità in Messico, ha modificato la vita quotidiana dei cittadini, reso più rischiosa la normale attività economica, generalizzato la paura e intriso di incertezza, senso di sopraffazione e autoritarismo le relazioni inter-personali.

Il Messico, tanto per sintetizzare, è stato collocato al terzo posto –dopo Siria e Iraq- come paese per numero di omicidi per conflitti armati nel 2014. Ma la peculiarità di questo studio, è che non si ferma al dato macroscopico e anche un po’ lugubre della regressione della vita civile in un grande paese dotato di una certa istituzionalità.

Il focus è invece quello di documentare gli sforzi della società civile per organizzarsi, anche nel nuovo contesto. Certo: gran parte di questo tessuto organizzativo –ma non poteva che essere altrimenti- si articola a partire dalla violenza subita. Quindi nella ricerca si analizzano i movimenti di familiari di ‘desaparecidos’ e di vittime del conflitto Stato/Narcos; le associazioni di donne sorte per la ricerca delle persone inghiottite nella zona di Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti, che è stato chiamato “l’epicentro mondiale del dolore”; il giornalismo d’inchiesta che deve affrontare durissimi attacchi sia da parte dei poteri criminali che da parte dello Stato (dal 2000 ad oggi, almeno 86 giornalisti sono stati uccisi in Messico e la classifica di Reporter senza frontiere colloca il Paese al posto 148 su 180, nel ranking dei paesi per libertà di stampa).

Importante spunto di riflessione, dunque, per smontare letture stereotipate e dimostrare come alla figura di vittima (e quella del gemello carnefice), sia possibile affiancare e sostituire quella di ‘vittima che riesce a divenire soggetto attivo’, che esige diritti ed incarna oggi la possibilità di una ritorno ad uno stato di diritto e una democrazia avanzata e piena, cosa che non ci si può aspettare da certo ceto politico e certi ambiti istituzionali ormai collusi con la criminalità organizzata.

L’interessante analisi sulla criminalità organizzata, la violenza endemica e le risposte della società civile messicana appena menzionata, può essere letta insieme al più breve articolo apparso sulla rivista “Internazionale” di questa settimana, nel quale si ricorda che se quattro messicani sono ogni anno nella classifica delle persone più ricche del mondo, altri undici milioni vivono in povertà estrema. Forse anche lì si trovano le radici di una violenza strutturale e occultata.

 

Photo credito: L'AntiDiplomatico