Dopo-Trump: quali saranno le conseguenze per l'Africa e l'America Latina?
14 Novembre 2016 - A pochi giorni dall'elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti, nella più che discussa persona di Donald J. Trump, sui giornali di tutto il mondo gli analisti iniziano le riflessioni sulle conseguenze nella politica internazionale.
Come testimonianza di tali sforzi, due articoli ci paiono indicativi ed interessanti.
Il primo è tratto dalla rivista Jeune Afrique, uno storico settimanale francofono, il quale si chiede “quali conseguenze per l’Africa?”. Una prima conclusione è che uno dei rarissimi punti comuni tra il partito repubblicano e quello democratico in questa tornata elettorale, è l’assenza o lo scarsissimo spazio lasciato all’Africa nei rispettivi programmi elettorali. “Ma alla mancanza di interesse, si aggiunge sul versante repubblicano una ignoranza scandalosa riguardo al continente”, scrivono Benjamin Polle e Jean-Sébastien Josset nell’articolo.
Durante la campagna elettorale, Trump ha mescolato analisi geopolitiche superficiali e bislacche, errori nella pronuncia dei nomi di alcune nazioni africane, con una critica a fondo verso l’interventismo statunitense in Iraq, in Siria, in Libia… C’è quindi da aspettarsi una ‘ritirata’ degli USA dagli scenari più caldi a livello globale e africano? Davvero ci sarà una politica ‘neutrale’ rispetto al conflitto israelo-palestinese? Prevarrà la politica di “interruzione completa e totale all’ingresso di musulmani negli USA” (dichiarazione del 7/12/2015)? Oppure prevarrà il programma politico del partito repubblicano, che parla di “rafforzamento dei legami con gli alleati africani per gli investimenti, il commercio e la promozione del mercato democratico e libero”. In realtà le caratteristiche stesse che Trump si è scelto come personaggio mediatico e politico (e che sono state vincenti per attrarre il consenso alle elezioni!), lo obbligano a colpi di scena continui, dichiarazioni ad effetto, posizioni contraddittorie una con l’altra. E’ pressochè dunque impossibile predire come si muoverà Trump e la sua amministrazione verso un continente lontano, poco conosciuto e verso cui sembra che la lettura ‘trumpliana’ sia un amalgama di luoghi comuni e stereotipi, come quando nel luglio 2013 attaccò l’aiuto allo sviluppo dell’amministrazione Obama scrivendo su Twitter: “Every penny of the $7 billion going to Africa as per Obama will be stolen - corruption is rampant!”. Oppure quando in piena crisi dell’epidemia Ebola scrisse sullo stesso mezzo che bisognava impedire l’arrivo di chiunque potesse essere contagiato.
In un inconsapevolmente parallelo, l’articolo dal titolo “Qué puede esperar América latina”, di Leandro Morgenfeld sulle colonne del quotidiano messicano “Página 12”, fa una prima mappatura dei temi ‘caldi’ su cui sarà possibile misurare le politiche della nuova presidenza USA nei confronti del Centro e Sud America: in primis il tema dei migranti ‘latinos’ illegali negli USA. Trump ha usato la sua artiglieria più pesante verso i migranti latinoamericani, orientando l’insofferenza dei ceti medio-bassi bianchi contro questi. Scrive Morgenfeld: “Nonostante il capitale si nutra di milioni ‘indocumentados’ per sfruttarli, riesce anche ad utilizzarli anche per canalizzare contro di essi il malessere sociale, effetto della disoccupazione e della crescente povertà e diseguaglianza che sono vertiginosamente aumentate dalla crisi del 2008”. Va ricordato che le stime parlano di 23 milioni di latinos negli USA (di cui almeno 5 milioni clandestini, l’11% della forza lavoro statunitense). Benché durante i due mandati Obama si siano ‘deportati’ (rimpatrio obbligato) circa cinque milioni di clandestini, Trump prometta mano ancora più dura e di irrobustire il muro lungo tutta la frontiera con il Messico. Un secondo tema immediatamente in agenda sarà Cuba: inizialmente tiepido, il candidato repubblicano ha via-via alzato il tono su questo tema per avere il voto degli esiliati cubani a Miami, arrivando a dire che da presidente sospenderà il disgelo tra l’Avana e Washington.
Un terzo tema sicuramente nell’agenda statunitense e della regione, è la lotta al narcotraffico: con alterne intensificazioni e rallentamenti, il supporto militare e della DEA (agenzia federale antidroga statunitense) alle forze speciali di ciascun paese per l’eradicazione della produzione, trasformazione e traffico di droghe è stato un capitolo importante delle trattative con Colombia, Perù, Bolivia e Ecuador. Che atteggiamento avrà un Trump, che non si è mai pronunciato su questo, ma ha più volte pronunciato discorsi ‘isolazionisti’ e di ritiro dai temi più collocabili nella sfera interna e nazionale di alcuni paesi? In questa stessa linea, che atteggiamento prenderà la nuova amministrazione verso il Venezuela e il conflitto interno che cova in questo paese? Oggi un inviato del presidente Obama, Thomas Shannon, cerca di mediare tra le posizioni del governo di Maduro e le forze di opposizione: un gioco che appare troppo raffinato per il ‘metodo Trump’.
Nell’articolo si segnala anche una ipotesi di alleggerimento del pressing e dell’influenza statunitense sulla regione, posto che Trump si è ampiamente scagliato durante la campagna elettorale contro i trattati di libero commercio internazionale ( come il TTIP e il TPP); la traduzione per il sub-continente sarebbe la sospensione delle procedure –fortemente volute invece dall’amministrazione Obama- per la firma del Trans-Pacific Partnership treaty (TPP), un’area di libero scambio tra paesi asiatici ed americani affacciati sull’Oceano Pacifico, con l’esclusione della Cina.
Ma per ora il vero indicatore delle nuove politiche sarà la composizione dello staff del neo-presidente, che indicherà il peso dei ‘falchi’ e delle ‘colombe’ nell’amministrazione.
(Un articolo di Piero Confalonieri)